Cos’è l’apnea?

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Cos’è l’apnea?

Sostanzialmente il tempo che intercorre tra un respiro e l’altro che si dilata a piacimento. Nel mezzo un mare di sensazioni, d’altronde si dice sempre che le cose belle levano il fiato.

Naturalmente ognuno durante l’immersione ricerca qualcosa, per Umberto Pelizzari, “chi si immerge in apnea si guarda dentro” e sicuramente ha ragione.

Per scendere nel blu bisogna innanzitutto conoscere sé stessi, sapere il proprio stato di forma, sapere le capacità tecniche raggiunte e averne la loro completa padronanza.

Solo così l’immersione potrà essere sicura. La quasi totalità degli incidenti avviene perché non si sa dire di “no”, sopravalutandosi troppo e affidando, spesso, sé stessi agli altri.

Se l’immersione è per tutti “un piacere”, “uno stato di benessere”, diverso è l’obiettivo finale che ci si prefigge, esso può essere il raggiungimento di un record, di una sfida personale, o più semplicemente, il “guardare il mondo senza respiro”.

E forse ormai si pensa troppo all’obiettivo finale della quota o della distanza da percorrere.
Per carità, non sono qui a criticare chi fa agonismo! Sono un giudice, sia per la Fipsas che per la Cmas. Ma come per chi scala, non sempre è importante solo raggiungere la vetta, ma come si raggiunge.

Il modo più veloce per andare da A a B è una linea retta, ma è il viaggio che arricchisce, cosa sarebbe stato di Ulisse se fosse giunto subito ad Itaca? Avremmo perso una delle storie sul Mediterraneo più bella di sempre.

Quando si scende in apnea verso gli abissi, bisognerebbe pensare ai metri che si raggiungono.

Prendete i 30 metri, profondità che per molte didattiche segna il confine tra “allievo” e “maestro”.

La profondità è stata raggiunta per la prima volta da Raimondo Bucher nel 1950, strappando la pergamena dalle mani di un sorpreso palombaro. Ai suoi piedi un paio di pinne di caucciù, sul viso una maschera enorme, tra le mani un fucile appesantito che gli permettesse una sorta di assetto variabile.

I 50 metri, che ormai sento “snocciolare” con tranquillità da molti apneisti, li raggiunse il mitico Enzo Majorca (che mi onora della sua amicizia) il 15 agosto del 1961 quando la scienza, matematica alla mano, dichiarava che non sarebbe stato possibile.

Ma qui tuffi, quelle immersioni, avvenivano tutte con uno spirito diverso, il fallimento non era contemplato e l’uscita “sporca” nemmeno. E questo sino ai tempi di Pipin, Genoni o Pelizzari.

Oggi si parla di “sambe controllate”, dell’inutilità del cartellino da strappare dal fondo e da consegnare ai giudici, magari sostituendolo con un pulsante da schiacciare.

Ad Enzo (Majorca) l’ultima volta che ci siamo incontrati ho chiesto cosa ne pensava del cartellino e di questa idea di abolirlo. “è il segno tangibile e concreto di aver raggiunto la profondità e poi ci si immerge sempre per riportare qualcosa su tra le mani, per segnalare di aver toccato il fondo, sia essa una manciata di sabbia o una conchiglia”.

E allora una cosa lontanissima, che pensavo di aver dimenticato, si è riaffacciata tra le sinapsi della memoria.

Dove andavo al mare, da piccolo, c’erano due modi semplici per dimostrare il proprio coraggio: tuffarsi più in alto degli altri e scendere più in profondità degli altri.

Un giorno scivolò una maschera ad una ragazzina che faceva parte del nostro gruppo di snorkeling. Ecco, lei mi piaceva assai, e non ero l’unico del gruppo a cui piaceva.

Subito c’è chi si tuffa per l’abile impresa. L’acqua era profonda non più di 6-7 metri, anche se a 10 anni non è poco. Prima che potessi provarci io, ecco che c’è chi raggiunge il fondo, la prende, la porta in superficie, ma l’urgenza di respirare gli fa perdere la presa. La maschera scivola nuovamente giù sul fondo e si deposita su un masso, appena poco sopra a dove era prima.

Sono il più fresco, non mi sono ancora immerso, faccio una veloce iperventilazione e giù, pinneggiando con forza, strappo la maschera dal fondo e risalgo sempre con foga, rallento solo un attimo prima di raggiungere la superficie, so che ci sono riuscito ed impazzisco di gioia. Esco con il braccio proteso fuori dall’acqua e sorrido mentre le porgo la maschera.

Non sono stato il più profondo, ma poco importa, con buona pace degli altri, sono riuscito nell’obiettivo e quella sera, diedi anche il mio primo bacio.

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